Non ti muovere
di Sergio Castellitto (2003)
Il romanzo di Margaret Mazzantini è stato il caso letterario italiano dello scorso anno, coronato dalla conquista del premio Strega 2002; l’omonimo film diretto dal marito Sergio Castellitto promette di portare la fama della tormentata storia di Timoteo, Italia ed Elsa ad un livello continentale, se non proprio mondiale. Tutto dipenderà dal Festival di Cannes e… chissà… dall’Oscar per il miglior film straniero. Vi sembro esagerato? Non direi: non è facile scrivere una storia commovente, anzi straziante, che ti esplode dentro in mille schegge emotive – rabbia, terrore, disgusto, squallore, tenerezza, sconforto, speranza - eppur totalmente priva di retorica, di buoni sentimenti gratuiti, di luoghi comuni; altrettanto difficile – forse di più - è riversarla in immagini di celluloide. I coniugi Castellitto ci sono riusciti: onore al merito di una nuova famiglia di cui l’Italia può andar fiera. La storia gravita sulle scene iniziali del film: una strada fradicia di pioggia, il mento di una ragazzina sotto cui svolazza spericolato il gancio slacciato di un casco, i capelli liberi nel vento di una corsa in motorino… una frenata improvvisa, un botto, un’ambulanza che corre a sirene spiegate, un medico dagli occhi infinitamente tristi che viene avvisato da una collega: la quindicenne appena entrata in sala operatoria è sua figlia. Da questo momento parte una serie di flashback in cui Timoteo ricostruisce gli ultimi, a lunghi tratti travagliati anni della sua vita… e la vera protagonista – mentre la moglie Elsa/Claudia Gerini resta in ombra un po’ sempre - diventa una splendidamente brutta Penelope Cruz, di una bravura sorprendente in un ruolo scomodo, difficile, ostico: quello dell’amante di Timoteo, la prostituta Italia, sciatta, derelitta e sregolata ma con un cuore enorme… proprio come la nazione da cui prende il nome. Il viaggio nei ricordi di Timoteo ci trasporta in una staffetta tra due mondi opposti: da una parte il centro città piacione ed esibizionista di una borghesia annoiata formato famiglia, che nasconde l’acre puzzo di un entusiasmo marcescente a colpi di Chanel N° 5; dall’altra la periferia degradata, in cui l’affetto è monodose, somministrato in gocce, dove l’ubriacante profumo dell’amore può sbocciare anche dall’odore odioso di sudore, sangue e sesso di una violenza carnale. Timoteo ricorda, rivive, si strugge, rimpiange, recrimina… e noi con lui, come se quei solchi che gli rigano il cuore, quelle lacrime che riempiono - come abiti sporchi dopo un lungo viaggio - le borse scure sotto gli occhi di un bravissimo Castellitto fossero nostre, come se le riscoprissimo in quelle due ore di cinema, fino ad allora nascoste, rinchiuse in un angolo dell’anima, travestite da piccole delusioni quotidiane accumulate per anni e che per anni ancora dovremo accumulare… e finalmente le possiamo liberare in un fiume di lacrime consolatorie. Terapeutico!
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Per chi ha il cuore indurito dalla vita: troverà – nel buio della sala – il conforto di lacrime che sgorgano senza freno.
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